Miniamplificatori e diffusori: problematiche di
interfacciamento
Si fa un gran parlare di amplificazioni valvolari, ed una delle
poche strade per ottenere sistemi con un ottimo suono ad un prezzo
limitato è quella di accontentarsi di una potenza esigua.
Questo approccio è da molti ritenuto impraticabile, dato
che è da decenni prassi comune non prendere neanche in
considerazione amplificatori di potenza inferiore ai 50W ed indicare
potenze dell'ordine dei 50-100W per sonorizzare ambienti di medie
dimensioni.
D'altra parte ricordo una nostra insegnante all'università
che ci fece notare come una potenza sonora di 10W fosse già
una potenza enorme, e in effetti basta vedere le potenze di targa
delle sirene d'allarme per rendersi conto di quanto avesse ragione
(anche se i mormorii e le risatine o i sorrisetti di compatimento
allora si sprecarono...)
In realtà, come scrive Lucio a proposito dell'Insulto Finale, è veramente impressionante cosa si riesca ad ottenere da
amplificatorini da pochissimi watt (ed intendo cose da 1,5 - 2W,
ma ce ne sono anche da 800mW...).
D'altra parte non tutti hanno spinto i loro acquirenti sulla strada
delle alte potenze a tutti i costi. Ad esempio sui manuali che
accompagnavano le mitiche AR nella seconda metà degli anni
settanta, in pieno boom dell'hifi e all'inizio dell'ascesa dei
giapponesi, veniva riportata una tabella che consigliava almeno
60W per sale di ascolto al di sopra degli 85 metri cubi (una stanza
7x4m) e da 15 a 30W per sale di volume inferiore ai 56 metri cubi
(4x4.5m).
In realtà la AR sembrava più preoccupata
della tenuta in potenza dei suoi prodotti che della potenza minima
applicabile, tanto da consigliare prodotti di livello via via
superiore all'aumentare del volume e quindi della potenza consigliata
per l'amplificatore.
Ripensando oggi a quei tempi, ciò che lascia veramente molto perplessi è che tali indicazioni mi sembrano pienamente in contrasto con le teorie degli audiofili dell'epoca, tenendo anche conto del fatto che le AR in questione (a partire dalla 10pi-greco giù fino alla AR18) erano tutte casse a sospensione pneumatica, e per giunta erano considerate estremamente "dure" ed a bassa efficienza, anche se in realtà avevano una sensibilità abbastanza normale di 86dB/1W/1m.
Un aspetto veramente divertente di tutto questo è il fatto che all'inizio degli anni '80, quando si utilizzavano amplificatori strapotenti a stato solido, si faceva un gran parlare di risposte in frequenza di interfaccia ampli/casse (vedi Audio Review); ora invece, con il progressivo discredito gettato sulle analisi di laboratorio dalla asserita difficoltà di correlare i risultati delle prove di laboratorio con le sensazioni di ascolto e dal presunto appiattimento del livello tecnologico dei prodotti, sembra si trascurino completamente tali tipologie di analisi, che potrebbero essere molto importanti per capire i limiti degli attuali miniamplificatori.
In effetti è difficile trovare citata anche la sola la
impedenza di uscita o il fattore di smorzamento di questi oggetti,
sia che si tratti di prodotti in commercio, sia che si tratti
di kit o progetti presentati su riviste.
Fra l'altro c'è una inveterata abitudine delle riviste a non effettuare prove tecniche sulle elettroniche valvolari, e talvolta si trova la
specifica ammissione che ciò avviene in quanto queste sarebbero
troppo penalizzanti rispetto alle stesse prove effettuate su amplificatori
a stato solido.
Ora i casi sono due: o le prove non sono per niente significative, e quindi non servono mai, oppure sono significative, e quindi servono sempre.
Come spesso accade la realtà è probabilmente nel
mezzo: un dato risultato di una prova di laboratorio non garantisce
direttamente e certamente gli stessi effetti sonori in tutte le
condizioni, per cui la prova in se ha una validità relativa.
Ad esempio un amplificatore con una impedenza di uscita elevata
avrà in generale problemi nel controllare i bassi, ma potrebbe
non evidenziare alcun problema se interfacciato con casse con
i bassi estremamente frenati già in origine.
Comunque nel caso dei valvolari le impedenze di uscita sono certamente un parametro da prendere in considerazione e verificare con cura.
É chiaro che una analisi completa, seria ed aggiornata
richiede strumentazioni non alla portata di tutti.
Perciò vorrei solo proporre alcuni metodi molto semplici
che possono dare una prima indicazione dell'impedenza di uscita
di un amplificatore, senza alcuna pretesa di precisione o correttezza
assoluta del risultato.
É necessario comunque avere a disposizione un generatore di segnali a frequenza variabile. Già qui vi spaventate? Va bene, basta un CD-player ed un CD di test che riporti toni sinusoidali a varie frequenze o addirittura sweeppate (cioè tracce in cui il segnale parte da una bassa frequenza iniziale e cresce regolarmente con una legge ben definita). Ad esempio il CD di test di Fedeltà del Suono contiene segnali di questo tipo.
Per misurare la resistenza di uscita dell'amplificatore ad una data frequenza si usa una tecnica molto semplice; in pratica si cercano di misurare i parametri del circuito equivalente di Thevenin dell'uscita dell'amplificatore; come già detto in un precedente articolo, il teorema di Thevenin dice che qualsiasi circuito lineare può essere modellato come un generatore di tensione Vi ed una impedenza Zi (o se vogliamo per semplicità trascurare le rotazioni di fase una resistenza Ri) in serie a questo: nel caso dell'uscita di un amplificatore questa impedenza è proprio l'impedenza di uscita, cioè quella che stiamo cercando, mentre la tensione del generatore corrisponde alla tensione misurabile a vuoto (cioè senza alcun carico) all'uscita dell'amplificatore.
Per prima cosa dobbiamo determinare la tensione a vuoto Vi. Si
applica all'ingresso un tono sinusoidale ad un livello tale da
non portare assolutamente l'amplificatore vicino alla saturazione
e si misura con un tester impostato su tensioni alternate il livello
di uscita a vuoto.
Questa misura fornisce direttamente il valore
Vi del generatore di tensione del circuito equivalente.
A questo punto si effettua una seconda misura della tensione di
uscita, ma questa volta con un carico noto (conviene sceglierlo
tipicamente fra i 4 e gli 8 ohm).
Ipotizzando che il circuito sia perfettamente lineare (cosa peraltro
abbastanza falsa, dato che lo stiamo utilizzando in condizioni
"estreme") in pratica la tensione del generatore si
ripartisce proporzionalmente fra la resistenza interna Ri dell'amplificatore
e la resistenza di carico Rc: perciò la tensione sul carico
si può scrivere come
Vc = Vi * Rc / (Ri + Rc)
Ora Vi è nota, Rc pure e quindi si può ricavare
Ri:
Ri = Rc * (Vi - Vc) / Vc
Normalmente misuro la tensione di uscita a vuoto, quella su 3.9
ohm e quella su 7.8 ohm; dopo di che applico la formula qui sopra
a questi due casi, tanto per verificare che il dato sia significativo.
Con sistemi valvolari (in particolare mini monotriodi o simili)
spesso la precisione si spinge apparentemente alla seconda cifra
decimale... il che, se è positivo per la misura, è
estremamente negativo, perché significa che ci si trova
di fronte a impedenze di uscita tutt'altro che irrilevanti rispetto
al carico.
Notare che il livello di tensione a cui la prova si effettua è in teoria assolutamente irrilevante, in quanto contano solo i rapporti fra le tensioni.
Ad esempio in un paio di test che ho effettuato ho misurato una
impedenza di uscita dell'ordine dei 5 o 6 ohm... il che sembra
leggermente alto.
Una seconda misura che può dare ancora meglio un quadro
di cosa avviene in queste condizioni è quella della risposta
in frequenza di interfaccia.
Per prima cosa conviene effettuare una verifica del "banco
di prova". Si carica l'uscita dell'ampli con una resistenza
possibilmente coincidente con il dato di targa dell'amplificatore
(ad esempio in ampli valvolari con doppi secondari da 4 ed 8 ohm
indipendenti si deve usare come carico una resistenza da 3.9 o
7.8 ohm rispettivamente). Quindi si applica in ingresso un segnale
sinusoidale di frequenza variabile ma livello costante e si misura
il livello in uscita dell'amplificatore, mettendo il tester in
parallelo al carico.
Se applicate una sweeppata vedrete tipicamente che la tensione in uscita parte piuttosto bassa a frequenze infrasoniche, cresce fino a stabilizzarsi, resta costante fra i 100 e 10KHz e quindi riprende più o meno lentamente a scendere.
Una bella risposta in frequenza che vi potete anche disegnare per
punti: nel caso convertite i livelli in dB, prendendo come riferimento
ad esempio la tensione a 1KHz: la formula per le tensioni è
quindi
Vf[dB] = 20 * log(Vf[V] / V1KHz[V]
Ora staccate la resistenza e attaccate all'uscita la cassa con
cui volete testare l'interfacciamento. Ripetete la misura di prima.
Nel caso in cui stiate usando una sweeppata può darsi che
il tester vi sembri leggermente impazzito: non c'è da preoccuparsi,
è solo che l'impedenza di ingresso delle casse non è
neanche lontanamente costante (e questo è ben evidente
dai grafici riportati nelle prove tecniche sulle riviste) e quindi
ci possono essere delle frequenze per cui l'impedenza è
molto più bassa di quella dichiarata.
Nel caso in cui l'impedenza di uscita dell'amplificatore sia irrisoria
rispetto all'impedenza delle casse, e l'amplificatore è
in grado si erogare la corrente richiesta dalle casse, la risposta
in frequenza di interfaccia dovrebbe comunque restare piatta.
Ma nel caso in cui l'impedenza di uscita sia paragonabile a quello
del carico qualsiasi variazione dell'impedenza del carico stesso
si ribalta in una variazione di pari entità della tensione
applicata al carico.
L'esempio qui riportato è una misura reale effettuata con la tecnica di cui sopra. Da non credere, vero?
A questo punto si vede bene di che entità sia il problema
in caso di miniamplificatori a valvole: l'impedenza di uscita
non è normalmente bassa, mentre la potenza disponibile,
che è già per suo conto irrisoria sul carico ideale,
rischia (diciamo rischia, ma è un eufemismo...) di ridursi
ulteriormente sul carico reale di una cassa e, quel che è
ancora peggio, varia in maniera anche pesante al variare della
frequenza.
In pratica siamo ormai abituati a risposte in frequenza
delle elettroniche entro +-0.2dB da 10Hz a 100Khz, mentre in realtà
ci si ritrova con variazioni ("ondulazioni della risposta
in frequenza in banda audio") che possono raggiungere i 4-5
dB a seguito dell'interfacciamento fra ampli e casse, a causa
da un lato dell'alta impedenza di uscita dell'ampli e dall'altro
della non costante impedenza di ingresso delle casse.
Il problema è strutturale: un amplificatore a valvole tipicamente
ha una impedenza dinamica sul primario del trasformatore leggermente
superiore alla impedenza interna del tubo stesso, per ottimizzare
il trasferimento di potenza.
Supponiamo di avere un tubo con impedenza interna 4Kohm e trasformatore con primario da 5.2 Kohm e secondario da 8 ohm. Poiché la legge di trasformazione delle impedenze è reversibile, cioè se l'impedenza vista dal tubo è 650 volte (5.2k/8) quella del carico allora l'impedenza
vista dal carico è 1/650 di quella dello stadio di uscita
che pilota il trasformatore, e l'impedenza con cui uno stadio
SE pilota il trasformatore è praticamente l'impedenza
interna del tubo, si vede bene che i risultati non sono facilmente
modificabili: si ha come impedenza di uscita teorica 4K/650 =
6 ohm.
Ora viene il bello: quali sono gli aspetti sonici di tutto ciò?
Poiché l'impedenza di ingresso dei diffusori è estremamente
variabile da caso a caso, non esiste assolutamente una regola
generale: dipende da caso a caso, sia dall'amplificatore che
dalle casse utilizzate. L'unico dato che si riscontra sempre è
uno scarso controllo dei bassi (rimbombanti, lunghi, gonfi, poco
dettagliati) ed anche l'entità di questo fenomeno dipende
molto dall'accoppiata ampli-casse in esame.
Si può avere ad esempio una cancellazione dei bassi o un
loro "gonfiarsi", oppure un eccesso di alti o una caratterizzazione
spinta nelle medie frequenze. Se avete dei dubbi sugli scherzi
che l'interfacciamento ampli casse può fare, andate a rileggervi
le prove di ascolto dell'Insulto Finale: in generale la retroazione riduce l'impedenza di uscita di un amplificatore e ne amplia la
risposta in frequenza; tuttavia nel caso in cui senza retroazione
un calo della risposta in frequenza dell'amplificatore sia compensato
da un aumento dell'impedenza delle casse, abbassare la risposta
in frequenza può addirittura avere effetti negativi !!!
Nel caso del grafico riportato sopra l'effetto di calo alle alte
frequenze è completamente mascherato al punto che risulta
si desidera attenuare lievemente la via alta del diffusore.
Le basse frequenze, anche se non bassissime, sembrano relativamente
(il diffusore per conto suo ha una banda dichiarata da 70Hz in
su...) ben presenti: probabilmente l'aumento dell'impedenza attorno
ai 50 Hz bilancia la caduta della risposta acustica.
Il suono è ben definito, piacevole, assolutamente non gonfio (vedete
il buco sui medio bassi?). Il suono è solo un po', ma neppure
troppo, colorato: al confronto di certe casse a torre sembra addirittura
cristallino!
Conclusioni
Allora i mini amplificatori a tubi sono da scartare a priori?
No: si devono solo tenere ben presente questi problemi per evitare
di peggiorare il problema con accoppiamenti a rischio: si devono
cercare casse che si sposino bene con loro, cioè con impedenza
abbastanza costante e che soprattutto non scenda troppo in basso.
Vi chiedete come fare poi ad essere sicuri che la scelta effettuata sia quella giusta? Ma allora, secondo voi, a cosa vi dovrebbero servire le orecchie?
© Copyright 1998 Giorgio Pozzoli