[ Home | Redazione | FAQ | HiFi Shows | Ampli | Diffusori | Sorgenti | Tweakings | Inter.Viste ]
Prodotto: Born To Run: l'autobiografia
Autore: Bruce Springsteen (traduzione di Michele Piumini)
Sito ufficiale: http://brucespringsteen.net/
Pagina Wikipedia: Bruce Springsteen
Editore: Mondadori
Prezzo (indicativo): € 20 (cartaceo, rilegato) - € 10 (e-book)
Recensore: Roberto Felletti
Pubblicato: Dicembre, 2017
Confesso che vedere il mio nome alla voce recensore mi fa un certo effetto; sarò all'altezza del compito che mi sono assunto? Era da un po' che pensavo a questa cosa, a scrivere un articolo mio, non per presunzione né per manie di protagonismo, ma perché mi andava di farlo. D'altronde, non è questa la filosofia di TNT-Audio? Fare qualcosa per il gusto di farlo, per quel piacere, forse un po' narcisistico per chi scrive, che un Direttore come Lucio ci concede? Come ho detto, nella mia mente rodeva già da un po' questo tarlo; restando fedele alla regola per cui bisogna scrivere di ciò che si conosce, ho chiesto al Direttore se fosse interessato a un articolo simile per la sua/nostra rivista. Il buon Lucio ha acconsentito e ora eccomi qua, pronto ad affrontare questo impegno (che impegno poi non è) nel presentarvi un articolo che spero sia piacevole, interessante e stimolante. L'occasione è stata la lettura di questo corposo libro di 500 pagine autobiografiche di una star della musica rock, indiscutibilmente tra le più famose a livello mondiale: Bruce Springsteen. Ho preferito svincolare la stesura di questo articolo da una ricorrenza particolare, tipo i 70 anni del Nostro (tra due anni) oppure da altre motivazioni, anche perché quando si scrive qualcosa su una celebrità, spesso è per circostanze non... come dire... belle; così ho scelto di provare a recensire il libro. Vediamo cosa ne verrà fuori.
Non mi dilungherò sulla vita e le opere del rocker del New Jersey, l'americano per antonomasia potremmo dire (sebbene di padre irlandese e madre italiana, o forse proprio per questo, l'americano come frutto di un'integrazione comunque sempre difficile; lo stesso Bruce scrive «Non che i due clan non vadano d’accordo, però è raro che attraversino la strada per passare del tempo insieme»); il sito ufficiale e la pagina Wikipedia abbondano di dati e notizie sulla sua carriera, per cui vi rimando a questi due link per il suo “curriculum”. In questo articolo cercherò di parlare dell'uomo più che del musicista, anche se poi, con il trascorrere del tempo e con il progredire della sua carriera, a volte risulta difficile scindere le due componenti. Io ho conosciuto Springsteen, ovviamente dal punto di vista musicale, con Born in the U.S.A., l'album sicuramente più famoso, quello che lo ha consacrato rockstar e quello che, per sua stessa ammissione, ha cominciato a fargli vedere i soldi. Già, perché Bruce, dopo che i suoi genitori decisero di andare a Ovest, volle restare nel suo New Jersey e fare il musicista (praticamente l'unico lavoro che abbia mai fatto). Furono tempi durissimi, soldi pochi o niente, e per un certo periodo fu costretto a rovistare tra i rifiuti per rimediare qualcosa da mangiare. Born in the U.S.A. fu il primo CD che acquistai; praticamente avevo il lettore, un Philips CD380 (funziona ancora, anche se all'accensione emette inquietanti scricchiolii), ma nessun disco da suonare, mentre un mio amico non aveva il lettore ma un CD (Opel, di Syd Barrett), e ascoltavamo quello. Comunque, il suddetto Philips era collegato a un (e qui sarò costretto come punizione a intrecciare cavi per l'eternità nelle segrete di TNT-Audio) compatto Philips F1662 a cui erano collegate le due casse in dotazione, poste ad altezza orecchie di giraffa (e con questo mi sono giocato la permanenza su queste pagine, con esilio permanente). Alla fine, poi, ascoltavo quasi sempre in cuffia, anche perché le casse in quella posizione facevano più fracasso che musica; oltretutto, non avevo nemmeno lo spazio necessario per disporre due diffusori correttamente. E così, con i mezzi a mia disposizione, cominciai a conoscere meglio questo artista, procurandomi anche i suoi album precedenti senza sapere se mi sarebbero piaciuti o meno; all'epoca non c'era Spotify, non c'era YouTube e quindi non c'era modo di ascoltare delle anteprime.
Il libro è suddiviso, sostanzialmente, in tre parti: Growin'Up è la prima ed è anche il titolo di un brano del primo album, Greetings from Asbury Park, N.J.; essa copre il periodo che va dall'infanzia fino alla pubblicazione di The Wild, the Innocent & the E Street Shuffle (1973), fino al fatidico momento in cui un critico di nome Jon Landau disse quella frase ormai entrata nella storia: «Ho visto il futuro del rock'n'roll e il suo nome è Bruce Springsteen». Un futuro che iniziò una domenica sera del 1956, quando il bambino Bruce vide un travolgente Elvis Presley che, armato della sua chitarra, si esibiva dimenandosi a colpi di bacino davanti a un pubblico di morigerati americani; il giorno dopo, il piccolo convinse la madre a comprare una chitarra che, però, fu solo noleggiata, poiché i genitori non potevano permettersi l'acquisto. La prima esibizione del futuro rocker fu strimpellare le corde davanti a qualche stupito amichetto, con la sensazione che quella sarebbe stata la strada che avrebbe percorso, quella sensazione di preveggenza e di anticipo del divenire che solo da bambini, ma anche da ragazzi, fa fare cose folli, non per un senso di superiorità sugli altri, ma perché si sente, effettivamente, il fuoco ardere dentro di sé. Una specie di inconsapevole consapevolezza che fa sentire speciali, che dà quasi la sensazione di avere il controllo totale. Così, il futuro Boss, grazie anche a qualche lavoretto per parenti e vicini di casa, riuscì a racimolare i soldi per comprarsi una chitarra (naturalmente usata, quasi un catorcio), e iniziò a imparare i primi accordi. Poi passò a una chitarra elettrica con tanto di amplificatore, anche qui roba scadentissima che, però, per lui sembrava il nirvana. Di lì ebbe inizio il solito percorso di tutti i musicisti (o aspiranti tali), ritrovarsi con gli amici e provare, provare, provare... e iniziare a suonare da qualche parte, fosse anche l'ultimo dei locali, il postaccio più squallido del mondo o il capanno degli attrezzi. La prima band significativa furono i Castiles, con i quali Bruce si esibì nei posti più disparati, dai raduni dei pompieri a un ospedale psichiatrico, finché un bel giorno (siamo nella seconda metà degli anni '60) non gli capitò di incontrare il front-man di un altro gruppo: Steve Van Zandt. Bruce scrive: «L'intesa fu immediata: fu l'inizio di una delle amicizie più longeve e importanti della mia vita».
Bruce Springsteen e i Castiles
Come il sole sorge a est e tramonta a ovest, anche i gruppi musicali si formano e si sciolgono; è il naturale corso degli eventi. I Castiles si sciolsero, ma nuove formazioni erano all'orizzonte. Poi fu la volta della chiamata alle armi, la temutissima visita di leva; per Bruce e per i giovani statunitensi di fine anni '60 significava la partenza (e per molti, purtroppo, un viaggio di sola andata) per l'inferno del Vietnam. Il Vietnam e la guerra sono presenti in alcune canzoni di Bruce: tra tutte mi viene in mente A Good Man Is Hard To Find (Pittsburgh), dalla raccolta su quattro CD Tracks, struggente ritratto di una donna che è rimasta a casa con la figlioletta in una Pittsburgh nuvolosa, mentre a Saigon piove e lei siede accanto all'albero di Natale illuminato, mentre la figlia dorme nell'altra stanza e lei non sa come fare a raccontarle delle meschinità umane e di un padre che, forse, non rivedrà più. Anche questo è Bruce Springsteen, che fu dichiarato non idoneo alla visita di leva a causa delle lesioni subite in seguito a un precedente incidente motociclistico. Passato quel temutissimo momento, Bruce riprese la sua attività di musicista, ormai a tempo pieno, in lungo e in largo per i locali. Fu in questo periodo che il padre decise di trasferirsi in California con la famiglia; Bruce scelse di rimanere a est, nel suo New Jersey, proseguendo la vita del musicista, finendo poi per formare l'altro gruppo significativo: gli Steel Mill. Non ho esperienze dirette, ma penso che gli avvicendamenti dei gruppi musicali, soprattutto all'inizio, i cambi di nome e di persone siano qualcosa di fisiologico e tipico di personalità musicali in via di formazione, alla ricerca di “cosa voglio fare da grande”, la ricerca di quell'identità musicale che poi accompagnerà l'artista o il gruppo nel corso della carriera. Ma la vita di Bruce ebbe anche una parentesi californiana, nel corso della quale, come ogni bravo ragazzo che si rispetti, andò a trovare i suoi genitori e la sorella. Però «senza sentirci dei falliti, ma nemmeno le star che avevamo immaginato», Bruce e gli Steel Mill compresero che avrebbero potuto vivere di musica soltanto a casa loro, sulla East Coast.
Bruce Springsteen e gli Steel Mill
E, tornati sulla costa orientale, per Bruce ci fu il secondo incontro fondamentale della sua vita, musicale e non: Clarence “Big Man” Clemons, un altro dei pilastri di quella che sarebbe stata la E Street Band, compagna fedele di tanti anni e di tanti successi. Ma il richiamo della California, la ricerca di una nuova vita «lontano dai miei patemi d'amore» aveva riportato Bruce a ovest, dove era tornato a essere uno dei tanti che ci provavano, e non “qualcuno”, come nel New Jersey. Nel frattempo, l'ancora sconosciuto futuro del rock'n'roll stava gettando le basi per quello che sarebbe stato il primo album della sua carriera: Greetings from Asbury Park, N.J. (1973). Tornato nuovamente a casa sua, nel New Jersey, alla fine il sogno si realizzò: un vero contratto per un vero album, registrato in tre settimane e con testi autobiografici, ispirati a persone, luoghi e situazioni vissute da Bruce in prima persona. Ma molta sua produzione successiva avrà questa connotazione autobiografica; personalmente, credo che ogni artista, chi più chi meno, aggiunga esperienze personali alle proprie canzoni, magari mascherandole come se fossero esperienze altrui. Un modo, forse, per dire cose che diversamente non si direbbero, o non si saprebbero dire. Questo suo primo album, se vogliamo di taglio cantautorale più che rock, vendette solo 23.000 copie, un insuccesso dal punto di vista discografico ma un'enorme soddisfazione per i suoi genitori (e sicuramente anche per lui).
A tal proposito, mi ricordo un episodio della serie tv Vinyl, ambientata in una casa discografica statunitense nel 1973, e quindi proprio negli anni dell'esordio di Springsteen. In una riunione su quali artisti investire e quali abbandonare al loro destino, viene fatto anche il nome di Bruce; il discografico dice «Chi? Ah, ma quello non farà molta strada». Ora non ricordo se le parole fossero esattamente quelle, ma il concetto sicuramente sì. Per fortuna si trattava solo di una fiction! E quando Bruce iniziò a sentire i passaggi radiofonici delle sue canzoni, cominciò a provare quel brivido elettrizzante che, come dice lui, prova tuttora ogni volta che sente una sua nuova canzone alla radio.
Mentre era in corso il tour di Greetings, Bruce registrò il secondo album, The Wild, the Innocent & the E Street Shuffle. Anche in questo suo secondo lavoro, molti sono i riferimenti autobiografici sulla sua vita e gli ambienti che frequentava nel New Jersey. Un album che definirei particolare, sicuramente non adatto a chi non avesse mai ascoltato Springsteen e volesse capire che genere di musica fa. È uno di quei dischi che è possibile comprendere pienamente solo quando si è già entrati in sintonia con l'artista, quando si è entrati nelle sue corde, in questo caso le corde di una chitarra che, nel giro di un paio d'anni, avrebbe cominciato a segnare la parabola ascendente di quel futuro del rock'n'roll auspicato da Landau. I tempi erano ormai maturi per rendersi conto di essere nati per correre, per scappare via verso una vita migliore e più appagante, verso un futuro invidiabile, alla conquista del mondo.
Growin'Up (Greetings from Asbury Park, N.J.) e Kitty's Back (The Wild, the Innocent & the E Street Shuffle)
La seconda parte dell'autobiografia, Born To Run, comprende il periodo che va dalla lavorazione e pubblicazione dell'album omonimo (1975) alla fine degli anni '80. La corsa doveva ancora iniziare e, delle otto canzoni dell'album, l'unica pronta era quella omonima, la title track, terminata dopo sei sofferti mesi. Saranno stati anche mesi sofferti, ma è innegabile che il pezzo, e comunque tutto l'album, trasmette energia e vigore, la forza e il coraggio di ribellione giovanile, la voglia di riscatto, un'energia che non può non spronare ad agire. Musicalmente ascolto un po' di tutto, ma non posso non affermare che quel ricostituente naturale che è il rock mi abbia aiutato, certe volte, a risollevarmi il morale quando le cose non andavano (non vanno) nel verso giusto. Può sembrare forse scontato, vagamente giovanilistico e adolescenziale, ma anche oggi, da diversamente giovane, dopo aver superato la soglia dei 50, continuo a pensare che, a volte, una canzone ti aiuta più di mille parole; lo stesso Bruce lo dice in No Surrender (Born in the U.S.A.): «impariamo più da una canzone di tre minuti di quanto possiamo imparare a scuola». E con Born To Run, per Bruce si aprirono scenari internazionali, come l'Inghilterra, patria del rock europeo anni '60 e '70, patria degli idoli musicali dei giovani dell'epoca. Su palchi stranieri, sempre più numerosi e distanti geograficamente a mano a mano che il tempo passava, ma sempre sostenuto da quella E Street Band, da quelle persone che non erano semplici musicisti, no; erano il giusto complemento di un artista che, forse, senza di loro non sarebbe riuscito a diventare ciò che è diventato: Garry Tallent (basso), Danny “the Phantom” Federici (organo), Steve “Little Steven” Van Zandt (chitarra), Max “Mighty Max” Weinberg (batteria), Roy “Professor” Bittan (pianoforte), Clarence “Big Man” Clemons (sassofono). L'ordine non conta, nessuno viene prima di nessun altro, e se il tempo, crudele e ineluttabile, ha portato via qualcuno, la loro magia e la loro bravura esisteranno fino a quando ci sarà qualcun altro ad ascoltarli suonare, fino a quando esisteranno impianti, dischi e ogni altro mezzo per riprodurre la loro maestria.
Born To Run
Bruce è sempre stato un autore prolifico, ha sempre scritto più canzoni di quante potessero starcene in un album; era l'epoca dei vinili, più di tante non potevano metterne su un LP. Se ci fossero stati i CD, i suoi album avrebbero sicuramente superato l'ora di durata... e infatti, la raccolta Tracks, quattro CD che sfruttano praticamente la capienza massima del dischetto digitale, propone una quantità incredibile di scarti (per così dire) della sua produzione discografica. E, aggiungerei, scarti di valore, vere e proprie chicche. Un altro esempio è The Promise, altra raccolta di inediti del periodo fine anni '70, all'epoca di Darkness on the Edge of Town. Sicuramente, avrà dovuto faticare non poco per scegliere i pezzi da mettere nei vari album... Metto questo o quello? E se mettessi quest'altro? No, questi qua sono di sicuro impatto.
Come dice Bruce, «Chiunque tu sia stato e ovunque tu abbia vissuto, non puoi liberartene. Il passato sale in macchina con te e ci rimane». È vero: le tue origini, il tuo ambiente, ciò che sei è frutto di ciò che è stato seminato, è innegabile. E questo vale anche per Bruce; lui viene da una famiglia non certo ricca, non certo borghese, non è un figlio di papà. E in Darkness lo si percepisce; uno dei miei brani preferiti è Factory. Quell'operaio che attraversa i cancelli della fabbrica è mio padre, quel bambino che lo guarda entrare sono io. Poco più di due minuti intensi di vita, molto di più di quello che si può imparare a scuola (ecco che ritorna la frase di No Surrender). Con Darkness, Bruce diventa adulto (ormai ha 30 anni), deve assumersi le sue responsabilità, di fronte a se stesso e al mondo. Non c'è più tempo per giocare, l'incoscienza dell'adolescenza è già alle spalle da un po', la spensieratezza dell'infanzia è un ricordo sbiadito in una fotografia in bianco e nero. L'età adulta, con il suo peso, incombe e ti sbatte in faccia la realtà delle cose. Il mondo non è una comoda culla, è un posto bello ma difficile, dove le persone comuni devono lottare quotidianamente per vivere.
Factory (Darkness On The Edge Of Town)
E le persone comuni sono le protagoniste di The River, doppio album del 1980, dove si parla di amore, matrimonio e famiglia. L'amore di I Wanna Marry You, dove il protagonista (Bruce stesso?) dice che è ora di avere una famiglia, assumersi le proprie responsabilità di uomo, mentre osserva una ragazza che spinge una carrozzina. La vita può non essere facile, l'amore può non essere quella favola che sembra, ma anche se il padre morente gli dice che il vero amore non esiste, lui non ci crede; potrebbero esserci momenti belli e momenti brutti, giorni sereni e giorni tristi, ma insieme si superano le difficoltà. Così dovrebbe essere, ma spesso così non è. E poi c'è l'amore struggente da parte di chi teme la perdita, come il protagonista di Wreck On The Highway (anche qui Bruce stesso?), che assiste a un incidente d'auto e che, quando torna a casa dalla sua donna, si sveglia nel cuore della notte per stringerla forte, pensando a quell'altra donna, la moglie o fidanzata dell'uomo morto nell'incidente, che riceverà la visita di un poliziotto che le darà la triste notizia. Siamo effettivamente foglie appese all'albero della vita, basta un niente per perdere tutto. Un Bruce sentimentale, intimista. Ma The River è anche rock, come no... Ci sono dei trascinanti pezzi rock, la chitarra di Bruce deve ruggire. E ruggisce, con amore. Anche in questo caso, molti brani scartati sono poi confluiti in Tracks e molte outtakes sono state pubblicate in un disco extra nell'edizione dei 35 anni dalla prima pubblicazione dell'album: The Ties That Bind: The River Collection (oltre ai brani già inseriti in Tracks).
I Wanna Marry You e Ramrod (The River)
Si può fare un disco con sola voce, chitarra e armonica? Certamente, se ti chiami Bruce Springsteen. Il 1982 è l'anno di Nebraska, album che più scarno, dal punto di vista musicale, non si può. Un album da ascoltare, punto. L'intensità emotiva di queste dieci canzoni pesca dall'infanzia di Bruce e dai suoi misteri, come egli stesso dice. Almeno tre canzoni sono ispirate a episodi autobiografici. Una registrazione tutto sommato povera, quasi amatoriale, fatta in casa; i pezzi sono poco più che dei demo che, dopo varie prove insoddisfacenti e inconcludenti in studio, sono stati pubblicati così com'erano. Eppure l'album ha un che di magico; la totale assenza di strumenti elettrici fa risaltare la sua voce, con la chitarra e l'armonica che ci trasportano nel suo mondo. E chiudendo gli occhi, sembra quasi di vedere la luna piena che domina la villa sulla collina, il poliziotto che permette al fratello di superare il confine statunitense per entrare in Canada, sebbene abbia aggredito un ragazzo, oppure l'uomo (Bruce stesso) che torna alla casa paterna senza trovare più nessuna delle persone che conosceva, casa in cui ora abitano altri. Da ascoltare assolutamente in penombra oppure al tramonto, o di sera, quando tutto si fa tranquillo e calmo. Può sembrare suggestione, eppure certi dischi, anche di altri generi, acquistano una dimensione nuova se ascoltati in circostanze particolari. È una sensazione fantastica. Poi, chiaramente, migliore è l'impianto, più intensa è la sensazione. O no? Almeno, a me capita così; la scena pare aprirsi, le note si diffondono liberamente nell'aria e l'impianto tende a scomparire.
E così, tra una sensazione e l'altra, siamo arrivati al 1984, l'anno di svolta per Bruce come musicista, ma anche per la musica in genere, perché Born In The U.S.A. è stato indubbiamente uno spartiacque di quegli anni. A trent'anni di distanza, però, non mi sentirei di dire che è il miglior disco di Springsteen, né il più rappresentativo. È stato indubbiamente un grande successo discografico mondiale, il conto corrente di Bruce ne avrà sicuramente giovato, ma lo considererei più come un punto focale, un figlio del suo tempo, un punto di partenza da cui approfondire la conoscenza di Bruce musicista, ma anche di Bruce uomo; prima e dopo. Era l'America di Reagan, e la canzone omonima fu vista come un'esaltazione della forza e della potenza militare U.S.A., della supremazia dello zio Sam; quella frase «mi hanno messo un fucile in mano e mi hanno mandato ad ammazzare i musi gialli», come sprezzantemente venivano definiti gli asiatici, è ironica. Springsteen è contro la guerra, non la prese tanto bene quando il Presidente assunse il brano come “inno” delle sue velleità militariste. Anzi, Bruce è tuttora molto sensibile al problema dei reduci e li sostiene attivamente. Ma forse il vero significato del brano fu travisato da molti e si perse nel travolgente successo commerciale dell'album omonimo. Credo che all'inizio sia più facile seguire il proprio cuore, il proprio istinto e trasferirli nelle canzoni; poi si diventa famosi, c'è chi ha investito su di te ed entri in una logica di mercato che un po' ti lega le mani. L'unico concerto di Bruce al quale ho assistito fu allo stadio di San Siro nel 2013; un mio amico era riuscito a ottenere due biglietti omaggio, e così andammo a Milano. Non avevo mai assistito a un concerto di quelle proporzioni, né avrei potuto obiettivamente permettermelo; se non ricordo male il costo si aggirava sui 100 euro! Furono tre ore e mezza di grande spettacolo, di grande energia; vedere un uomo di 64 anni (allora) suonare e cantare per tre ore di fila senza praticamente fare pause... beh, non è da tutti. In quell'occasione, Mr. Springsteen & soci suonarono tutto l'album Born In The U.S.A., proprio in ricordo del concerto che Bruce fece, sempre a San Siro, nell'85, quando uscì l'album. Ancora oggi mi è rimasto impresso il coro del pubblico sulla canzone omonima; quel born in the U.S.A., I was born in the U.S.A., I was... gridato in coro da tutti, e sentito a 360°, è qualcosa che credo nessun impianto sia in grado di riprodurre, per quanto buoni siano i componenti. Lasciatemelo dire, l'acustica complessiva era un insulto all'udito, ma si sa, in uno stadio si dovrebbe giocare a calcio... (o forse era la posizione in cui mi trovavo a essere sfavorevole). Ciononostante, mi divertii molto e tornai a casa comunque soddisfatto (anche se con le orecchie leggermente ovattate).
Born In The U.S.A. allo stadio di San Siro nel 2013
E poi qualcosa cambia. Little Steven se ne va, Bruce comincia a sentire il peso del successo, poi si sposa. Una serie di fattori lo spinge verso dimensioni meno plateali, meno esposte; dopo tanto, comincia a volere meno. Sicuramente, la notorietà, specie se improvvisa e inaspettata, può essere qualcosa di controproducente. E naturalmente, bisogna sempre fare i conti con il tempo che passa, e più ne passa e più sembra che passi in fretta. Se non stiamo attenti, ci ritroviamo sull'orlo del precipizio, alla fine della strada, senza che ce ne rendiamo conto! E comunque, Bruce imbocca il tunnel, quel tunnel dell'amore che fece finire il primo matrimonio con l'attrice Julianne Phillips per poi farlo finire tra le braccia di Patti Scialfa, corista e poi seconda moglie del rocker. La maturità (si avvicinano i 40 anni) confluisce in Tunnel Of Love, dove l'amore, le crisi, le difficoltà di una vita matrimoniale complessa e complicata da vite non certo comuni zittisce (o almeno attenua) il ribollente spirito giovanilistico del correre via, dello scappare, di quella vita on the road che, obiettivamente, non si addice a un uomo ormai adulto. E comunque, entrare nel tunnel dell'amore è sì quanto di più bello possa capitare a un essere umano, ma è allo stesso tempo un grosso rischio; d'altronde, se non si rischia dov'è il divertimento? L'importante è uscire dal tunnel sbagliato prima che sia troppo tardi, per imboccare, auspicabilmente, quello giusto. E, alla fine, Bruce lo imboccò. Lasciatosi alle spalle il matrimonio con Julianne, sposò Patti, la quale un mattino gli disse di aspettare un figlio, quel momento tanto temuto ma anche tanto desiderato, quel momento in cui tutto cambia e in cui ci si rende conto che le cose non saranno mai più come prima. Un figlio è una vera prova vivente: dell'amore, della vita, della magia e della potenza dell'universo che è in noi e intorno a noi.
La terza e ultima parte del racconto autobiografico di Springsteen prende il nome da un'altra sua canzone, Living Proof, contenuta nell'album Lucky Town, e va dalla nascita del primo figlio (1990) ai giorni nostri. Comincia una nuova vita per il Boss, non solo per la nascita del figlio, ma anche perché gli anni '90 segnano un periodo musicale senza la E Street Band; il fidato, e fedele, gruppo di musicisti non tornerà ad accompagnare Bruce in studio che nel 2002, con l'album The Rising, dedicato alla tragedia delle Torri Gemelle. Fu un momento di doloroso distacco per tutti, per la band e per Springsteen stesso, ma tutti compresero la scelta del capo e accettarono la situazione. Fu una scelta saggia, giusta? Fu la sua scelta, che nel bene o nel male contraddistinse gli anni seguenti. Possiamo dire, in generale, che non ci sono scelte giuste o sbagliate? Quello che a molti può sembrare sbagliato, per altri è un cambiamento in positivo; è quando il cambiamento è in negativo che diciamo “è sbagliato”. Ma forse non lo è in assoluto; è un percorso non adatto a noi, non sbagliato di per sé. In quegli anni, qualcuno accusò Bruce di non essere più se stesso, di essersi “imborghesito”; ebbene, potrebbe anche essere, chi siamo noi per giudicare? Non era più il ragazzo senza soldi che rovistava tra i rifiuti per cercare qualcosa da mangiare, era diventato “qualcuno”, e non è certo necessario essere Bruce Springsteen (o chiunque altro) per capire che qualche milioncino in tasca non ti fa restare la stessa persona che eri. Non ci ho mai creduto, né comincerò a crederci ora. Semplicemente, non è possibile tirare fuori la rabbia che non c'è, quando le cose girano nel verso giusto.
Living Proof (Lucky Town)
Come ho detto, Bruce tornò a incidere con la E Street Band nel 2002. L'anno precedente, tutto il mondo assistette all'evento che cambiò il mondo e le coscienze: l'11 settembre 2001 resterà tristemente famoso per quello che tutti noi sappiamo essere successo. E indubbiamente, per gli americani fu uno shock; mai c'era stato un attacco simile sul suolo americano, nemmeno durante la Seconda Guerra Mondiale. Bruce scrisse un album in memoria di questo tragico accadimento: The Rising, un'esortazione a risollevarsi, a reagire, a non cedere alle prevaricazioni e al terrorismo di menti folli e deviate. Decisamente non spensierato, questo album ci racconta lo sgomento di Bruce, che poi è quello di tutti gli americani (ma anche il nostro), di fronte a questo stravolgimento della vita quotidiana, a questo senso di crescente incertezza e insicurezza che poi è ciò a cui tende ogni azione terroristica. L'eroismo dei pompieri che entrano nelle torri in fiamme di Into The Fire, forse consapevoli che non ne usciranno, e quell'angosciante e triste cielo vuoto di Empty Sky, non più sfondo caratteristico di una New York felice, da cartolina d'altri tempi con l'inconfondibile immagine delle torri protese verso l'alto, lasciano il posto alla speranza, a quell'attesa di un giorno di sole, Waitin' on a Sunny Day, che altro non è che il desiderio di tornare alla vita, non di sempre però, perché non sarà più quella vita che si conosceva; la ferita resterà, affinché nessuno dimentichi. La vita continua sì, anche se You're Missing, tu non ci sei, manchi tu... e questo vuoto, non solo nel cielo ma anche nell'anima, è schiacciante e incolmabile. Niente chitarre ruggenti, niente balli sfrenati; solo toni dimessi, canzoni che sembrano sussurri, dolci carezze a un'anima ferita e colpita nel profondo. Bruce racconta che nel pomeriggio di quell'11 settembre si era recato in un punto in cui, in lontananza, era possibile scorgere le torri come due sottili righe nere sullo sfondo del cielo; solo che quel giorno si scorgevano solo delle colonne di fumo salire verso l'alto. Egli stette seduto sulla spiaggia, per un po', a riflettere, e poi, sulla via di casa, un automobilista, che lo aveva riconosciuto, gli gridò: «Bruce, abbiamo bisogno di te!». Come ho già avuto occasione di dire, a volte una canzone può aiutare, soprattutto quando l'artista ci parla come se conoscesse ciò che può darci conforto e calore, come se sapesse di cosa abbiamo bisogno. In quella particolare occasione più che in altre.
Into The Fire e You're Missing (The Rising)
Ma lasciamo l'atmosfera cupa e doverosamente malinconica di The Rising per l'incursione di Bruce nel folk-country, con un disco senz'altro particolare e non rock: We Shall Overcome: The Seeger Sessions. Da amante anche del country, sebbene più honky-tonk, non posso non proporvi questa travolgente Pay Me My Money Down. Un excursus nella più vera tradizione musicale americana delle origini.
Pay Me My Money Down (We Shall Overcome: The Seeger Sessions)
E siamo arrivati ai giorni nostri. Bruce e i membri della E Street Band non sono più i ragazzi della East Coast, gli anni pesano e lasciano il segno. Nonostante l'attività musicale prosegua con altri album dedicati a problematiche attuali (come dicono i nostri Nomadi in un loro brano, «e se vuoi scrivere una canzone apri il giornale, c'è l'ispirazione»), per la prima volta un membro della band deve farsi da parte: è Danny Federici, che viene colpito da un melanoma. A causa di una diagnosi sbagliata (evidentemente certe cose non succedono solo da noi...) la malattia si diffonde e nel 2008 Danny muore (ma forse sarebbe meglio dire che è partito per un altro luogo, perché nessuno muore mai per davvero finché lo teniamo con noi, nel nostro cuore e nella nostra mente). Poi tocca a Max Weinberg cedere il posto al figlio, ma per fortuna per altri impegni artistici. Purtroppo, è Clarence Clemons a preoccupare nuovamente Bruce; il granitico Big Man accusa progressivi problemi di salute, al punto che sono costretti a farlo salire sul palco con un ascensore, tanta è la difficoltà che prova. In seguito, viene colpito da un ictus che gli danneggia metà cervello; non solo non riuscirà più a suonare, ma la condizione gli sarà fatale. Sul letto d'ospedale, Bruce gli canta un'intensa e commossa Land Of Hope And Dreams, accompagnandosi con la chitarra. Il nipote, Jake Clemons, prenderà il suo posto nella band. The show must go on...
Ed eccoci giunti alla fine di questa (mia prima) recensione, (monologo?), (flusso di coscienza?), sull'autobiografia di Bruce Springsteen. Ho scritto molto, molto non ho scritto. A mia difesa, posso dire che non sono un critico letterario né musicale, mi piace scrivere e tradurre, non conosco tutte le canzoni di Bruce e nemmeno tutti gli album (non nel dettaglio, perlomeno). Ascolto anche altro; mi piace scoprire artisti nuovi e nuovi generi. E comunque mi ero prefissato di parlare del libro che, essendo l'autobiografia di un rock-cantautore, non può prescindere da qualche citazione dei suoi lavori. Ho pensato anche di aggiungere qualche video, come giusto e congruo complemento alle parole. Condensare un libro di 500 pagine e una carriera lunga e ricca, come quella di Bruce, in poche righe non è certo facile; a complicare le cose, Madre Natura non mi ha dotato del dono della sintesi.
Molti libri sono stati scritti sul Boss, esistono varie biografie e alcuni testi affrontano in dettaglio questo o quell'aspetto del Nostro (me ne ricordo uno che parla del suo rapporto con le donne, vere o immaginate nelle canzoni). Senza nulla togliere ai tanti libri che sono stati scritti su Springsteen e sulla sua musica, indubbiamente questo riveste un ruolo di spicco; l'ha scritto lui, e quindi chi meglio di lui può descrivere quello che ha provato nel corso degli anni, le sensazioni derivate dalle canzoni scritte, dai concerti fatti, dai momenti intimi e privati, familiari (come quando aveva imparato a preparare la colazione ai figli)? Anche nella sua, sicuramente soddisfacente e riuscita, vita ci sono stati momenti belli e momenti brutti, attimi di gioia e attimi di tristezza: la nascita dei figli, la morte del padre nonché dei suoi più cari amici della E Street Band, che per tanti anni sono stati un elemento importante e fondamentale su cui fare affidamento, una presenza imprescindibile per la sua musica. In definitiva, la vita di un uomo comune con un lavoro non comune.
Un libro che consiglio assolutamente, non solo a chi non conosce Springsteen, ma anche a chi lo conosce già, a chi l'ha visto magari tante volte nei concerti, mai uguali, e a chiunque ami il rock (ma non solo). Ma la sua corsa non è certo finita; sono sicuro che Bruce abbia ancora altre frecce al suo arco. Altre note, altri accordi usciranno da quella chitarra, e noi saremo ancora lì, con i capelli sempre più bianchi, a ballare e a scatenarci al ritmo delle sue canzoni, perché... tramps like us, baby we were born to run...
Live long and prosper, Boss!
Land Of Hope And Dreams (Wrecking Ball)
Poiché siamo su TNT-Audio, una rivista che parla principalmente di apparecchiature hi-fi, non posso non citare il mio (modestissimo) impianto, che 15 anni fa sostituì il compatto Philips di cui ho parlato all'inizio. Nulla a che vedere, ovviamente, con le “bestie” usate dai recensori (quelli veri) di questa rivista, ma sicuramente molto meglio di qualunque compattone. :-)
Il tutto è sistemato su un mobile porta-elettroniche fai-da-te, sul modello FleXy di TNT-Audio.
© Copyright 2017 Roberto Felletti - www.tnt-audio.com
[ Home | Redazione | FAQ | HiFi Shows | Ampli | Diffusori | Sorgenti | Tweakings | Inter.Viste ]